mercoledì 1 aprile 2015

Una serie di (im)prevedibili lavori: rappresentante improvvisata da strapazzo.

Lasciate le riccone e la loro collina, iniziai a lavorare per un collega di mio marito (allora era "il mio ragazzo"), il quale voleva lanciare una sua attività di supporto tecnico ai negozianti e aveva bisogno di qualcuno che andasse di porta in porta a vendere il suo pacchetto.
Secondo lui ero la persona giusta.  
Determinata, puntuale, affidabile, convincente

Anche qui, nessun contratto, sarei stata pagata 20 euro a cliente procacciato, più una somma variabile a fine mese.
In pratica il mio compito era quello di battere Torino quartiere per quartiere, parlare coi commercianti, spiegare l'offerta e vendere il prodotto. E poi, essendo una cosa "tra amici", potevo organizzarmi a mio piacimento per i giri da fare, gli orari, etc.
Non mi sembrava molto diverso dai tanti lavori di promoter che avevo già fatto a Milano, e in cui ero sempre stata fieramente bravissima. Avevo sempre convinto parecchia gente a infilare nel carrello della spesa il prodotto promosso.
Invece c'erano degli aspetti che facevano differire questo lavoro da quello di promoter, e io non li avevo considerati:
  • Non sarei rimasta otto ore in un supermercato, ferma immobile al calduccio.
  • Non avrei promosso un prodotto da pochi euro, bensì avrei dovuto vendere un pacchetto un pochino più costoso.
  • I clienti dei supermarket non sono uguali ai titolari di un'attività commerciale.
Iniziai a lavorare e mi accorsi subito che ero un cane mandato allo sbaraglio, senza nessun tipo di formazione commerciale, senza nessun supporto pubblicitario, a vendere qualcosa che a ben vedere non interessava a NESSUNO.
Macinavo chilometri inutilmente. In generale, nessuno mi mandava via a calci in c***, anzi, per lo più finivo bloccata per 50 minuti ad ascoltare gli sfoghi dei commercianti. E soprattutto, molti di loro mi commiseravano dicendo "Poveri giovani. Boia Fauss! Come vi sfruttano".
Probabilmente il mio faccino gentile e i miei modi sinceramente cortesi non bastavano a vendere, ma erano sufficienti per giustificare i negozianti a tenermi lì un'ora per farmi un pippone sullo sfruttamento generazionale.
La nonna dei bambini che curavo fino a pochi giorni prima, incontrandomi nel quartiere, mi disse "Mio marito lo diceva sempre. Venditori si nasce, non si diventa".
Il ragazzo della mia coinquilina invece sosteneva che avrei dovuto fare un battage pubblicitario prima di passare personalmente nei negozi, e che quindi non ero proprio io quella inadatta.
Il lavoro era così poco serio che ognuno si sentiva autorizzato a dirmi la sua, e io mi sentivo sempre più scema.
Pensieri profondi, pur di non ascoltare più un consiglio: "Lalalaa"

Ovviamente, dopo poche settimane e dopo solo 20 euro guadagnati, tornai dal collega di Michel dicendo che non era proprio il lavoro adatto a me.
Intanto avevo l'affitto da pagare. I soldi messi da parte lavorando a Milano stavano esaurendosi.
Cosa potevo fare?
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